issue #18: whatever it takes
Caleido intervista Matteo Ward, co-founder di WRÅD, impresa innovativa e design studio. Benvenuti in Caleido, diario d’ispirazione che contiene molte storie: di persone creative, di tendenze, di viaggi, di oggetti. / Leggi qui l’Editor’s letter
Diario di: @matteo.ward

1. Lei è, assieme a Victor Santiago e Silvia Giovanardi, il fondatore di WRÅD, impresa innovativa e design studio “motivati dall’attuale crisi ambientale e ispirati alle esigenze sociali contemporanee”. Una delle sue frasi che mi è rimasta più impressa è: “il cambiamento deve avvenire, e noi possiamo guidarlo”. Da dove nasce, a livello personale, questo approccio che pone l’azione come strumento per la risoluzione?
Sin da quando ero bambino sono stato fortemente orientato a conquistarmi tutto quello che volevo. Il mio “credo” – maturato anche grazie alle varie esperienze della vita – è un mix di ottimismo, ambizione, motivazione, un po’ di fortuna, e tanta esperienza. Ho lavorato per vari anni per grandi aziende come Abercrombie & Fitch che, col senno del poi, potrei anche definire “il male”. Lo dico con molta serenità, perché se non avessi affrontato quel percorso non avrei capito tante cose… A farmi agire è stata in primis la paura, la paura di aver commesso il più grande errore della mia vita a far parte di un sistema, per tanti aspetti irrispettoso, che ti allontana dalla persona che vorresti essere. Al lavoro facevo delle cose belle e remunerative da tanti punti di vista, ma assolutamente non in linea con chi, eticamente, volevo essere da grande. Mi son guardato allo specchio e mi sono chiesto: “Quindi… che faccio? Da dove inizio?” Perché un conto è capire che c’è un problema, altra cosa è rendersi conto della vastità di tale problema, della sua entità e complessità. A 27 anni la paura si è trasformata in rabbia, quando mi sono chiesto “perché questo brand non ha mai affrontato seriamente l’impatto negativo che provoca?!”. Il vero punto è che, a quel tempo, questa cosa non se la domandava nessuno… ed è bastato un po’ di approfondimento per capire che quello dell’”impatto” non era soltanto un problema del brand per il quale lavoravo, ma era un problema macro-sistemico: quasi nessuno nell’industria della moda si preoccupava delle reali implicazioni delle produzioni di un paio di jeans o di una singola t-shirt… Eravamo talmente isolati, individualisti ed egocentrici ed era diventata una cosmologia “brand-centrica”, nella quale tanti brand rappresentano tanti piccoli sistemi solari isolati, nessuno si parlava e ciascuno puntava solo all’accrescimento costante della sua galassia.

È stato allora che ho capito che se avessi voluto cambiare qualcosa, quel qualcosa sarebbe dovuto partire innanzitutto mettendo in discussione il mio status quo personale. Quindi ho sfoggiato il coraggio di dire “domani mi licenzio e vado a fare altro”. Si sarebbe trattato di qualcosa di ignoto, senza un business plan, senza investitori… Ricevetti una proposta da parte di un fondo per aprire un brand di abbigliamento sostenibile, ma non era quello che avrei voluto fare da grande. Ho riniziato a studiare, e studiando ho dissipato quella paura che rischiava di bloccarmi: “Che faccio? Da dove inizio?”. La risposta è arrivata osservando tutti quegli oggetti che quotidianamente interagiscono con la nostra pelle: ho capito che ci sarebbe stato bisogno di un cambio di passo e che la questione dell’impatto ambientale sarebbe diventata cruciale. Ed è stato allora che nella mia testa è scattata quell’energia che avevo anni prima, appena uscito dall’università, fatta di adrenalina pura, paura, voglia di mettersi in gioco. Convinco Victor Santiago e Silvia Giovanardi; da due siamo diventati tre, poi sei, poi dieci… Il cambiamento parte da noi: questa convinzione mi rendeva particolarmente forte.



2. Nell’affermare questo principio e trasformarlo, lungo il suo percorso professionale, in un progetto imprenditoriale, dove ha trovato maggiori resistenze? Che spiegazione si è dato?
Sembra incredibile, ma nel 2016 nessuno o pochissimi dei leader del settore-moda pensavano che il tema dell’impatto ambientale sarebbe stato rilevante nell’immediato futuro, e quindi la resistenza era enorme… Partendo dall’inizio, dovevamo anzitutto convincere i nostri interlocutori che l’industria della moda avesse un impatto. E questa non era un’impresa facile, anche perché c’era sempre quel mezzo sorrisetto sulla faccia come per dire “sì vabbè, sono arrivati gli attivisti di turno a fare qualcosa campato per aria!”. Nel nostro essere WRÅD eravamo un po’ degli alieni (felicemente alieni), sempre quelli estranei all’interno della stanza nella quale ci trovavamo. È innegabile: c’erano delle resistenze a tutti i livelli, sia che si trattasse dell’aula magna di un liceo – dove comunque il terreno era più fertile – sia in contesti più abbottonati, come quelli industriali, politici, istituzionali o accademici. Parlando delle aziende, il tema della sostenibilità è diventato diffusamente “interessante” quando gli investitori hanno percepito la possibilità di aumentare il proprio fatturato e prendersi un mercato che evidentemente iniziava a manifestare interesse nei confronti della tematica. Una visione un po’ cruda, ma realistica. Certo, già prima c’erano dei casi – isolati – di imprenditori illuminati che, un po’ come nei primi anni della storia industriale italiana, avevano particolarmente a cuore il benessere dei loro lavoratori e il desiderio di restituire benessere… Ma si trattava di rare eccezioni culturali. Ora le cose sono diverse: non servono più doti visionarie, perché le cose si sanno e dunque non ci sono più scusanti.



3. Uno dei pilastri del suo impegno verte sulla Responsabilità, ed è indubbio che l’industria della moda, con la Responsabilità debba fare i conti. Si stima infatti (Harvard Business School) che ogni anno l’industria mondiale dell’abbigliamento produca circa 92milioni di tonnellate di rifiuti tessili. Ci suggerisce una chiave di lettura per renderci maggior conto della portata di questo fenomeno?
Immaginiamo di essere a Kantamanto, in Ghana, in quello che viene definito il “mercato di salvataggio” delle aziende del fashion: un luogo, lontano dagli occhi, dove viene recapitato tutto ciò che resta invenduto e non può essere indirizzato attraverso nessun altro canale distributivo. Immaginiamo di guardare fuori dalla nostra finestra e di veder arrivare ogni settimana 15 milioni di vestiti usati dal mondo occidentale [un po’ come se sommassimo tutta la popolazione del Portogallo e dell’Irlanda]. 300 tonnellate annue di vestiti usati che vengono donati da coloro che, in occidente, pensano di compiere una buona azione. Facciamo un passo indietro, e riflettiamo. Cosa sta succedendo? Cosa ci ha portati allo scenario di Kantamanto? Credo ci siano due ordini di ragioni.
Il primo è la de-valorizzazione del prodotto, qualitativa ed emotiva. Stiamo trattando i nostri vestiti come se fossero usa-e-getta… Costano talmente poco che non ci facciamo problemi a buttarli via dopo pochi utilizzi (secondo le statistiche, in media solo sette utilizzi). Il deprezzamento del capo d’abbigliamento è stato svalorizzato dal punto di vista qualitativo ed emotivo, per cui ce ne sbarazziamo senza farci troppe remore… Magari donandolo a qualcuno che crediamo ne abbia bisogno. Ma, a questo punto, la vera domanda è: in quanti, oggi, hanno bisogno dei nostri scarti di abbigliamento? A Kantamanto, quando arrivano i nostri “regali”, la stragrande maggioranza finisce in discarica, per 2 motivi: non se ne fanno nulla di capi tanto scadenti da non poter essere neanche rivenduti; non possono riciclarli perchè spesso sono realizzati con mix di materiali che ne impediscono la riciclabilità. Ed è così che finiscono in discarica impiegando fino a 400 anni per degradarsi se realizzati con fibre sintetiche.
Il secondo consiste invece nella sovrapproduzione: un brand della moda, oggi, per sopravvivere ed ottenere dei bilanci positivi, riconoscimenti e gratificazioni finanziarie, è dipendente dall’imperativo della crescita strutturale. E il modello utilizzato fino ad oggi per crescere è stato quantitativo: produrre sempre di più, a prezzi sempre più bassi (per aumentare i margini) e, portare sul mercato collezioni sempre più veloci. Sia che si tratti di brand del lusso che di fast fashion. Oggi siamo arrivati a produrre in media 52 collezioni l’anno, che si tradurranno in 102 milioni di rifiuti tessili fra il 2030 e il 2050. L’industria della moda si è focalizzata per troppo tempo sulla sola crescita quantitativa e non su quella qualitativa, e dunque oggi i brand hanno economicamente bisogno di questa sovrapproduzione, altrimenti non riescono a guadagnare “abbastanza per crescere”: il problema è proprio questo.



4. Sorge però, a questo punto, un’altra domanda: come sono riusciti a convincere tante persone ad acquistare così tanti capi (inutili)?
A suo tempo, Re Luigi XIV si era inventato una legge che imponeva le “due stagionalità d’obbligo”, per costringere i nobili a comprare di più… Nel mondo contemporaneo sarebbe impensabile (per fortuna!) che chi governa faccia una legge che obblighi le persone “a cambiarsi i capi ogni settimana”, e dunque sono arrivate in soccorso le teorie del marketing. I grandi brand negli anni ’60 hanno iniziato a seguire le teorie del signor Freud, che suo nipote Bernays ha applicato all’industria del marketing e della comunicazione per creare una domanda crescente. Ha anche scritto un libro che si chiama Manipolazione della conoscenza collettiva, da cui nasce la parola PR (Public Relations): l’evoluzione della parola “propaganda”, che però faceva paura in quegli anni, ovvero instillare nella testa delle persone il desiderio di possedere una cosa della quale non avevano assolutamente bisogno. È così che si arriva al numero di cui abbiamo parlato prima: siamo difronte ad un problema di proporzioni titaniche.
Ci tengo però a dire un’ultima cosa: attribuisco alla moda la capacità di essere un impareggiabile strumento di attivazione di massa perché è capace di risvegliare la parte emotiva prima di quella razionale: deve “solo” capire come veicolare tutta questa emozione nella direzione giusta.


5. Questo spreco viene spesso imputato all’abbigliamento economico di bassa qualità che ha reso “usa e getta” ciò che indossiamo. È pur vero però che anche i brand del lusso effettuano ordini di tessuti in grandi quantità per abbattere i costi sfruttando le economie di scala, con conseguente accumulo di materiale inutilizzato. In questo Tribunale del tessuto, qual è stato il ruolo del consumatore sino a qui? E quali sono le azioni concrete che ognuno di noi, dovrebbe fare oggi e domani per riequilibrare il fenomeno?
In questo Tribunale del tessuto ci sono vari imputati… Quello che spesso succede nei brand del lusso è questo: il direttore creativo, prima della sfilata, cambia idea, ed un centinaio di migliaia di euro di tessuti vengono buttati via. Non metto in dubbio la sacrosanta visione creativa di un direttore creativo, però nel mondo in cui viviamo oggi dovrebbe primeggiare una sorta di “pratica etica”. Che differenza c’è fra un pezzo di pane ed un tessuto? Nessuna. Entrambi richiedono energia, terra, acqua, aria, suolo, persone… Solo che il primo sfama 8 miliardi di persone, mentre l’altro serve a far sognare. Resta che non viviamo di tessuti, anche se recentemente una persona su Instagram mi ha scritto: “guarda, onestamente, io vivo di vestiti”.
Passiamo poi ai buyer di tessuti, che hanno un ruolo importantissimo: dovrebbero in primis puntare sul valore qualitativo e non quantitativo di quello che stanno acquistando, perché le scelte che vengono fatte a monte possono sia ridurre gli sprechi che facilitare poi il reinserimento del prodotto a valle, quando un domani ci inventeremo strutture funzionali al recupero e al riciclo dei vestiti. Pensiamoci bene: la stragrande maggioranza di quello che stiamo producendo dagli Anni Duemila ad oggi è qualitativamente scadente, e dunque sarà incapace di tornare ad essere vintage.
Ci siamo infine noi, quindi i clienti, che dovremmo adottare gli stessi principi. Questa affermazione, semplicistica, non fa però i conti con due fattori (e me lo dico da solo!): il potere d’acquisto delle persone, e la mancanza di cultura tessile.


Parlando del primo fattore, oggi nessuno può più permettersi un prodotto di alta qualità, perché una felpa sostenibile premium la si trova quasi esclusivamente presso i brand di lusso e costa oggi dagli 800 ai 3000€. Lo spazio per i “brand di mezzo” – quelli che negli anni 2000 ti vendevano la t-shirt a 40€ – si è ridotto moltissimo perché fanno una fatica incredibile a sopravvivere in quanto non hanno marginalità interessanti per gli investitori. E dunque l’alternativa resta una felpa di Uniqlo, H&M o Primark, mascherata come sostenibile.
Circa il secondo fattore, bisogna chiarire che il tessuto da solo non fa tutto, e non determina la sostenibilità di un prodotto. Guardare al tessuto è fondamentale perché funge da seconda pelle e interagisce con il nostro corpo… Ma in quanti ci fanno caso? Un ragazzo o una ragazza di 15 anni, in fase di acquisto di un nuovo capo, difficilmente verificherà se il materiale di cui è composto un prodotto potrà avere delle ripercussioni negative sulla sua salute… Dovremmo invece essere in grado di capirlo, proprio come quando entriamo dal fruttivendolo e compriamo una mela scegliendola in base a quanto sia di qualità o meno. Detesto la narrativa che colpevolizza esclusivamente il consumatore finale perché è innegabile che per tanti anni abbiamo venduto l’idea che quei prodotti “fossero okay”, ed improvvisamente puntiamo il dito contro quei i ragazzi, nati negli anni 2000, che sono cresciuti con l’idea che le t-shirt costassero €2,99 e che non hanno mai visto quei brand di mezzo che invece abbiamo fatto morire noi.

6. Nel Black Friday del 2011 Patagonia ha pubblicato un annuncio a tutta pagina sul New York Times con la scritta “Non comprate questa giacca”, incoraggiando un consumo consapevole e una riduzione dei rifiuti. Che ruolo ha il marketing nel processo di cambiamento?
Il marketing può e deve fare la sua parte… Grazie al suo potere pazzesco di influenzare le persone, potrebbe portarle ad assumere dei comportamenti più responsabili. Credo che un brand oggi abbia a disposizione almeno 3 armi:
La prima è la trasparenza: una comunicazione chiara e diretta, che usa la terminologia giusta, evitando affermazioni esagerate o vaghe. Ad esempio “T-shirt con cotone organico green eco-sostenibile” non vuol dire assolutamente niente… La presenza di cotone organico non esclude infatti che ci siano altre sostanze per esempio tossiche.
La seconda è l’onestà: ovvero avere il coraggio di essere sinceri, e magari dire “non sono sostenibile, mai forse lo sarò, ma sto cercando di fare un percorso in questo senso”. Mostrare un lato vulnerabile spesso viene apprezzato dai clienti…
Terza regola: non basarsi solo sulla comunicazione. Puoi raccontare tutte le cose che vuoi, nel modo migliore del mondo, ma se dietro non c’è un reale e concreto piano di sviluppo, basato su dati e azioni, alla fine i nodi verranno al pettine. Certo, se dietro alla comunicazione c’è un budget marketing così importante da riuscire a superare qualsiasi oggettiva verità, le cose si complicano… E a quel punto dovrebbero intervenire le istituzioni governative per impedire a questi brand di crearsi la loro verità attorno alla parola sostenibilità, creando dei danni pazzeschi.

7. I social media le permettono di veicolare i messaggi che guidano il suo lavoro, primo tra tutti “Sustainability is a thing to be, not a thing to do”. In che modo essi sono, se lo sono, un mezzo utile per combattere la sua R-Evolution? Ora una provocazione: possono sostituire le care e vecchie marce su strada degli attivisti?
I social possono fare tanto perché, in un certo senso, ci consentono di protestare efficacemente contro situazioni d’ingiustizia che insorgono… Supponiamo che uno o più brand facciano qualcosa di scorretto e ingiusto: sarebbe utopico pensare che tutti noi prendessimo un aereo per andare nei loro HQ a protestare, ma oggi, grazie ai social, con semplice post o un commento possiamo scatenare un’onda sismica prorompente difficilmente arginabile. L’ho fatto anch’io più di una volta: ad esempio quando Ikea lanciò, nell’autunno dello scorso anno, la sua collezione “streetwear”. Ho chiesto alla mia community di andare nella loro pagina e scrivere, sotto ad un post, #WhoMadeMyClothes per richiedere maggiori informazioni riguardo chi avesse prodotto quei capi. La cosa è diventata talmente virale che hanno iniziato a bloccare i commenti e il loro ufficio stampa mi ha contattato…
C’è un però. La grande differenza tra protesta digitale e protesta su strada è che il social, rispetto al confronto dal vivo, tende a chiudere in te l’energia e ad isolarti… Protestare dal vivo provoca invece un volano di energia “contagiosa” che amplifica il potenziale, e la futura divulgazione, del messaggio. Tutto questo digitale ha anche un’altra implicazione, che non ha a che fare con la manifestazione: ci siamo oramai disconnessi dal prodotto che indossiamo, dal fisico, dalla cosa per la quale stiamo realmente lottando…


8. Qual è un progetto, al di fuori di WRÅD, al quale sta lavorando e che la appassiona particolarmente?
Non sono mai fermo, quindi faccio fatica a rispondere a questa domanda individuando una sola attività. Sono molto vicino alle cause animaliste, ci sono letteralmente animali che soffrono e questo mi distrugge il cuore. Mi sto anche avvicinando sempre di più al mondo del design e dell’architettura, scoprendo negli scritti di grandi filosofi, designer e architetti degli anni ‘70 e ’80 tanti spunti utili per comprendere il mondo contemporaneo. Penso ovviamente a Sottsass, a tutti i movimenti di designer radicali tra degli Anni Settanta… E’ pazzesco: si tratta di un contesto per molti aspetti analogo a quello odierno, che ci offre spunti di riflessione per quello che ricerchiamo oggi, usando altre parole.

9. Lei ha un legame molto forte con l’arte, che spesso rappresenta un’alleata preziosa per veicolare i suoi messaggi (penso a La Venere degli Stracci di Michelangelo Pistoletto). Dove affonda questa passione? Se essa fosse una lente attraverso la quale rileggere, a ritroso, la sua vita, che interpretazione contribuirebbe a dare?
Qualche anno fa abbiamo creato un progetto a supporto del reparto di terapia intensiva neonatale dell’ospedale di Vicenza: abbiamo creato delle speciali tutine per bambini nati prematuri, capaci di ridurre la proliferazione batterica e quindi limitare il numero di decessi causati proprio dalle infezioni batteriche. Una cosa apparentemente banale, ma che mi ha permesso di capire che il mio “scopo alto” è trovare un modo per mettere a servizio delle persone le mie passioni, al fine di risolvere dei loro problemi e migliorare la loro vita.
È un po’ quello che ha fatto Michelangelo Pistoletto con il suo “Terzo Paradiso” [un simbolo che è la riconfigurazione del segno matematico dell’infinito, composto da tre cerchi consecutivi: i due cerchi esterni rappresentano tutte le diversità e le antinomie, mentre quello centrale è la compenetrazione fra i cerchi opposti e rappresenta il grembo generativo della nuova umanità]. Il suo simbolo mi ha fornito la spiegazione di quello che ho fatto io per tutta la mia vita: ricercare la sintesi tra una tesi e un’antitesi, ovvero escogitare una soluzione intermedia – magari non quella perfetta – che fungesse da punto di partenza per creare qualcosa di nuovo. Il Terzo Paradiso è per me questo: una sorta di “formula della creazione”, come dice lui. Ho passato tutta la vita a cercare di creare soluzioni migliori, sia per me che per chi mi stava attorno – un po’ come se fossi un politico – e questo simbolo me l’ha razionalizzato. Quando ho incontrato Michelangelo Pistoletto l’anno scorso avevo la pelle d’oca… Lui è un po’ come l’arte: ti apre gli occhi sulle cose e ti suggerisce una chiave di lettura.

10. Qual è un oggetto della sua casa al quale non rinuncerebbe mai? Qual è il ricordo legato ad esso? Ci manda una foto scattata da lei?
Il primo quadro che mi ha regalato mia madre: è per me un oggetto magico perché realizzato con dei materiali che provenivano degli scarti di lavori di mio nonno. Non ci rinuncerei mai e me lo sono portato letteralmente di casa in casa in giro per il mondo. C’è poi anche una scatoletta rossa, che custodisce i miei piccoli cimeli che mi porto dietro da quando sono bambino, tra i quali un ramoscello di vischio in argento che mi regalò Liana, la mamma della mia madrina di battesimo. È stato il mio porta-fortuna per tutto il percorso di studi e di avventura. Possiedo anche un paraorecchie a forma di hamburger, ci tengo particolarmente!
